/L’Ape musicale /29.10., 2022
di Roberta Pedrotti
Wexford, Armida, 23/10/2022
Al festival di Wexford la rara occasione di assistere all'ultima opera di Dvořák in una pregevole esecuzione in cui spicca la protagonista Jennifer Davies.
WEXFORD, 23 ottobre 2022 - Nel 1904, pochi mesi prima di morire, con il debutto della sua ultima opera, Antonín Dvořák torna a un soggetto lontano dalla tradizione ceca. Non avveniva dal suo primo lavoro per il teatro, di ambientazione inglese medievale, Alfred (composta nel 1870 ma rappresentata postuma solo nel 1938). Questa volta la fonte è letteraria e fra le più nobili e fortunate: la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, l'amore di Rinaldo e Armida.
Nell'approcciarsi a una vicenda più e più volte trattata nel teatro musicale (Händel, Lully, Gluck, Rossini solo per dire i più celebri) ma decenni dopo il fiorire del barocco e del belcanto, Dvořák sembra farne opportunità, quando non pretesto, per diverse ambizioni, quasi di testamento artistico sulla scia wagneriana. Ecco allora che le proporzioni si dilatano, a partire da un primo atto che (come già in Quinault per Lully e Gluck) ci mostra il punto di vista dei musulmani, ora ponendo l'accento sulla ritrosia di Armida a intervenire e sulle sollecitazioni in tal senso del suo spasimante, il mago Ismen. Nei due atti successivi assistiamo a quello che in genere è il vero fulcro della drammaturgia: Armida al campo dei crociati, la sua partenza con Rinald verso il palazzo incantato, la missione dei due cavalieri per ricondurre il paladino ai campi di battaglia, l'abbandono di Armida e la fine del giardino di delizie. Già qui, dopo aver anche apprezzato l'iniziale approfondimento psicologico dell'eroina eponima sotto una diversa luce, si notano allusioni musicali a Tannhäuser e un idillio sensuale con canti di ninfe che fanno pensare alle Fanciulle fiore, mentre la spettacolare ira distruttiva della maga passa decisamente in sordina. Nel quarto atto, poi, l'esteso monologo di Rinald risvegliatosi nel deserto rimanda a Tristan, mentre fa pensare a Parsifal la bizzarra svolta cristiano-redentrice del finale (finora parlare di Cristo sembrava più un obbligo incomodo), quando si innesta il Combattimento di Tancredi e Clorinda con Armida camuffata in armatura vinta e trafitta dall'ex amante che, infine riconosciutala e disperato, le impartisce l'estremo battesimo. L'idea di fare di Armida una sorta di Kundry è più che evidente, eppure Dvořák resta Dvořák e, al di là delle allusioni deliberate, la sua musica mantiene chiara l'identità slava, le ninfe ricordano le sorelle di Rusalka, la stessa protagonista ha molti punti in comune (anche perché concepita per la stessa cantante) con l'infelice sirenetta dell'opera precedente, che apriva l'ultimo atto con un cupo e ampio monologo esattamente come qui fa Rinald e se all'una rispondeva poi bieca Jezibaba, l'altro è scosso dall'impeto mistico militare di Petr (Pietro l'Eremita), con dolce epilogo d'amore e morte, ma non proprio tristaneggiante, per le coppie in entrambe le opere.
È interessante vedere e ascoltare l'Armida di Dvořák ed è indubbio che la musica sia di altissima qualità, tuttavia non stupisce – al di là della lunghezza e della difficoltà – che non abbia trovato posto stabile nel repertorio, con non pochi snodi drammaturgici farraginosi, evidentemente mossi più dall'ambizione che dall'ispirazione. Il luogo deputato per queste riscoperte non può che essere un festival come quello di Wexford, se non monografico almeno devoto alle rarità e a una linea tematica che quest'anno non potrebbe essere più calzante: Music&Magic.
La curiosità del titolo raro, ma d'eccellente paternità, si soddisfa peraltro con una locandina che nella tradizione del festival punta soprattutto su nomi (per ora) meno noti ma in genere gioca bene le sue carte. Basti pensare alla protagonista Jennifer Davies, che possiede la morbida lucentezza lirica ma anche la tempra e la resistenza – nonché l'intelligenza e la consapevolezza - per reggere la parte senza rinunciare a fraseggiare, cercare e trovare colori e accenti. Gerard Schneider rispetto a lei denuncia un po' più di comprensibile stanchezza nel massacrante quarto atto, ma è comunque un più che convincente Rinald per il quale un canto robusto non significa monolitico. Giustamente applauditissimo è, poi, il baritono Stanislav Kuflyuk come perfido, autorevole, sfaccettato Ismen e piacciono pure i bassi Jozef Benci (Hydraot) e Petr Hnyk (Petr), il baritono Rory Dunne (Bohumir e un Muezzin), i tenori Chris Mosz (Dudo), Josef Moravec (Sven), Thomas Birch (Roger), senza dimenticare gli altri bassi Andrii Kharlamov (Gernand) e Josef Kovačič (Ubald) e il soprano Libuse Santorisova (Sirena/Ninfa). La capacità del coro di passare da una sera all'altra dal ceco all'italiano al francese ha del miracoloso: la resa musicale è ottima, e se non possiamo garantire sulla pronuncia ci fidiamo della presenza di un concertatore madrelingua ed esperto come Norbert Baxa, che guida con equilibrio e competenza i complessi del festival e i solisti in un'esecuzione di tutto rispetto.
Un tantino didascalica la messa in scena, molto tradizionale, con regia scene e costumi sobri e ben caratterizzati di Hartmut Schörghofer, luci efficaci di D.M. Wood e video talora un po' ingenui (volutamente? Certo, il draghetto evocato da Ismen, dopo Harry Potter o le saghe tratte da Tolkien e Martin, fa un po' sorridere) di Raffaele Acquaviva. Tutto, comunque, concorre una una bella serata in cui (ri)scoprire un'opera che magari non diventerà il capolavoro del nostro cuore, ma che meritava di essere conosciuta, tanto più in una così pregevole esecuzione.